CAMPO C. Il giudice Scopelliti e quelle parole ancora così attuali…

11 Agosto 2017
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di CONSOLATA MAESANO

CAMPO CALABRO – Durante la commemorazione del giudice Antonino Scopelliti dell’altra sera, sono stati proposti alcuni spezzoni di una sua intervista a “Bontà loro”, un programma tv del lontano 1978. Nel salotto di Costanzo, Antonino Scopelliti parla del complesso rapporto tra magistratura e politica; dei dilemmi etici che accompagnano ogni decisione di chi indossa la toga; del coraggio di saper prendere scelte anche se impopolari. Le parole del giudice anche a 40 anni di distanza colpiscono per la loro attualità e offrono alla moderatrice, la giornalista Giusy Caminiti, diversi spunti da proporre all’ospite della serata: il procuratore della repubblica di Firenze Giuseppe Creazzo, anch’egli reggino.

«“Il giudice si trova trincerato, catturato tra mille carte e pur sentendo delle certezze morali che le carte non sono quelle giuste, vive questa succubanza del processo, del fascicolo”: esiste ancora questa condizione lamentata da Scopelliti?».

«Il giudice ha un solo faro, la Costituzione. Deve applicare la legge, non ha altri padroni ed è autonomo. Trae una verità “processuale” dalle carte, formulata cioè seguendo il diritto processuale. È una garanzia, un rispetto dei diritti».

«Abbiamo sentito Scopelliti affermare: “credo che il buon giudice è quello che lavora in assoluta umiltà, pronto ad ascoltare gli altri perché quando parlano possono dire sempre delle cose che il giudice non ha visto: l’importante è che il giudice si accorga che quelle cose che non ha visto andavano vedute” e ancora: “Il giudice non è mai popolare[..]. Il giudice va incontro a queste critiche, a volte anche aspre, vivaci, a volte anche ingiuste ma non può sacrificare il suo ministero-la sua milizia ormai- per una popolarità che non è un suo privilegio”. Umiltà e poca attenzione alla popolarità continuano ad essere concetti attuali?».

«È vero: guai a chi non prende atto dei mutamenti che si trova di fronte; guai a colui che si ostina per popolarità o per evitare di contraddirsi. Un giudice trae gratificazione da un’assoluzione. Il giudice deve pensare esclusivamente all’applicazione della legge e non al consenso sociale. Per questo deve essere in grado di prendere decisioni spesso non comprese, ma dettate dalla legge. E’ compito dei politici cambiarla, eventualmente».

«Il giudice afferma di sentirsi in trincea. Un magistrato a Reggio è o si sente in trincea?».

«Ci sono dei rischi, questo è vero. Non bisogna pensare necessariamente che dipenda dalle zone, io ad esempio a Firenze mi occupo della corrente anarchica. Non mi pare adatto parlare di trincea: il giudice si presta sempre e comunque alla serena e inflessibile applicazione della legge, anche con rischi. A nessuno piace correrli ovviamente, ma fa parte del lavoro».

«A proposito del rapporto tra Magistratura e politica, Scopelliti dichiara: “ritengo che il giudice che professa un credo politico in modo molto clamoroso non sia il mio giudice, non sia l’esempio che io condivido. [—] il sospetto che il giudice clamorosamente e politicamente impegnato possa farsi sedurre nella decisione dal fascino di certe suggestioni politiche non porta un giovamento alla credibilità del suo ministero”. Cosa ne pensa?»

«Non conosco giudici politicizzati, non esiste il divieto di iscrizione ai partiti, né mi vengono in mente sentenze deviate per motivi politici. È da anni che l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) invoca a gran voce una legge che proibisca il ritorno in magistratura di giudici eletti, senza per questo impedirne la candidatura. Questo perché è indispensabile che il giudice sia e appaia- è importante anche questo- imparziale. Certo, nessuno è neutro: ognuno ha un proprio bagaglio culturale, delle proprie opinioni e con questi strumenti valuta ed elabora le situazioni. La giustizia è umana, dunque fallibile. Inoltre, la politica è debole e tende a delegare tutto alla giustizia, con forti sbilanciamenti».

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