VILLA SAN GIOVANNI. Lettera aperta per un paese diverso: costruire un’isola felice credendo nel nuovo che avanza

29 Maggio 2017
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Lettera  aperta

E ci risiamo. Ma spero non sia un film già visto.

Elettrizzante ed emozionante al contempo, e questo significa che vive ancora della linfa sull’albero sociale tra i rami imbrigliati del nostro Paese. Ed è un bene. Ma perché questa linfa continui a produrre vita dunque nuovi germogli, nuovi rami e così accrescere e rinforzare il tronco dalle sue radici, necessita operare instancabilmente, malgrado le possibili intemperie. O si sarà obbligati prima o poi a dover recidere il tronco tutto, non potersi riparare alla sua ombra, e non più godere della maestosità e della bellezza di un Centenario.

E’ una bellissima giornata che preannuncia l’imminente stagione estiva. Lo spettacolo dello Stretto di Messina, il mare azzurro e il quotidiano attraversamento delle navi da una sponda all’altra. Peccato però che ad uno sguardo più ampio lo spettacolo è di quelli più desolanti: un cementificio esteso anche laddove non dovrebbero sorgere cattedrali abitative che spezzano l’incantesimo dello spettacolo dello Stretto, impedendo alla vista e al pensiero la sua estensione all’oltre. Mentre i luoghi della cultura sono abbandonati al loro degrado, obbligati allo stereotipo formativo del bastevole e sufficiente, malgrado ogni sforzo di chi della formazione ne è addetto.

Questo è il mio Paese. Nessuno spazio aperto, un panorama sempre più oscurato da costruzioni abusive, nell’indifferenza di camion e macchine che regalano l’acre aria dei tubi di scappamento, una passeggiata lunga tre chilometri, abbandonata al gioco di equilibrio per non cadere o allo stare attenti che le scarpe non abbiano a impuzzolirsi del letame canile. E dove l’unica prospettiva è la rassegnazione. Tutto appare disarmonico, ogni cosa a sé senza collegamento con il tutto. In un quotidiano apparentemente normale che non produce se non individualismo e arresa. Ed un pensiero nasce spontaneo: deve essere sempre e soltanto così?!

Anticamente il mio Paese portava il nome di Fossa, e in vero se lo si guarda dalla prospettiva dall’alto verso il basso, è davvero una fossa: le navi dell’Impero attraccavano, si ricaricavano di tutto per riprendere il mare tra Scilla e Cariddi, verso la Grecia e l’Africa. Da allora non è cambiato molto, in tal senso. Eppure quanta ricchezza esso conserva nel dentro della sua terra, nell’estensione della sua costa. Ricchezza che potremmo anche denominare LAVORO.

Lo abbiamo lasciato sempre alla mercè di una politica lontana da quell’essere virtù massima perché detentrice del bene assoluto: quello della comunità, aristotelicamente parlando. Fino ad oggi. Perché tutto può ancora mutare. Basterebbe crederci, e soprattutto prendere coscienza che la politica vera quella con la P maiuscola è quella del popolo: potestas in populo, direbbero i latini. Già, il potere è nel popolo.  O meglio, appunto, del popolo. Non soltanto dunque del cittadino nella sua soggettività, ma nella comunità tutta, anche di quelli più rassegnati, anche di quelli più indifferenti, anche di quelli per i quali tutto resta comunque eguale,  anche se tutto apparrebbe cambiare, gattopardianamente parlando.

Io credo che sempre sia possibile, se alla fiducia si accompagna la volontà, e non la rassegnazione che è stagnazione. Ma questo obbliga all’impegno al cambiamento. Alla “rivoluzione” sociale, non violenta certo, ma quella del sottosuolo che emerge e si fa non soltanto grido ma forza di e al cambiamento. E ciò lo si dovrebbe per le generazioni future: i nostri ragazzi, soprattutto. Per i quali, chi scrive unitamente a tanti, è impegnato, quotidianamente, tra le periferie della Scuola, e il territorio, alla costruzione per un Domani migliore da offrire loro. Ragazzi che hanno ali bastanti a fare il salto su quegli orizzonti aperti in spazi di libertà, che noi chiamiamo Futuro, ma che sono così smarriti confusi delusi, e per cui spesso ci viene difficoltoso ma non rinunciabile l’offrire la speranza nel credere comunque al loro diritto al Futuro, a quella bellezza della dignità dell’Uomo.

L’11 Giugno il mio Paese è chiamato alla scelta tra il restare passivi delegando il “potere” a proseguire sulla sua scia delle tante promesse mancate, tranne che per proprio personale arricchimento, o tentare una strada alternativa, che dicerto commetterà degli errori di scelte e di valutazioni, ma non a discapito della collettività, bensì proprio per offrire ad essa una possibilità altra.

Non bisogna avere paura della alternativa offerta dal nuovo, rinunciare al sogno che un giorno il mio, nostro Paese sia una isola felice, cioè un luogo dove il mare bagna davvero ogni spazio, e gli occhi siano liberi di gustare la bellezza della sua ampiezza in quell’azzurro che ci lancia alla speranza, al Futuro, quotidianamente. E ove i nostri ragazzi non dovranno più imbarcarsi per terre altre, ma con le loro urla i loro giochi la loro festosità le loro qualità e potenzialità colorano e danno sapore di vita nella certezza di un Domani nuovo e sempre reale. Non dunque soltanto possibile, bensì REALE.

Yes we can, obanamente parlando. Io preferisco, parafrasando il titolo di un libro: Noi speriamo che ce la caviamo.

prof. Mario Santoro

 

 

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