CAMPO C. Consiglio su giustizia e legalità, Tiberio Bentivoglio agli studenti: «L’arma più forte della mafia è il nostro silenzio»

8 Maggio 2016
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di  CONSOLATA MAESANO

CAMPO CALABRO – Tiberio Bentivoglio è un coraggioso imprenditore reggino, che ormai da un quarto di secolo combatte con fermezza la sua battaglia contro la mafia. Le armi della sua nemica sono il racket, le bombe alle sue attività commerciali, gli attentati contro la sua persona. L’arma di Bentivoglio è invece la sua instancabile voce, che non ha mai smesso di urlare, di denunciare a pieni polmoni i soprusi subiti, di raccontare la propria storia, di chiedere giustizia.
Questo simbolo della Reggio sana e onesta è stato ospite del consiglio comunale di Campo Calabro, svoltosi sabato sette maggio presso il centro polifunzionale. Presenti, oltre ai consiglieri e al sindaco, anche le forze dell’ordine e i sindaci dell’Area dello Stretto: il primo cittadino di San Roberto Roberto Vizzari, il collega di Calanna Domenico Romeo, il sindaco di Fiumara Stefano Repaci, il sindaco di Sant’Alessio Stefano Calabrò e la presidente del consiglio comunale di Villa San Giovanni Patrizia Liberto.incontro legalita con bentivoglio

Una seduta del civico consenso dedicata alla legalità e alla giustizia, che ha visto la partecipazione dei giovani studenti delle scuole medie del comune: è a loro che Tiberio Bentivoglio si è rivolto, raccontando la propria esperienza.
Come ogni storia, anche qui “c’era una volta” un giovane laureato che, mentre lavorava in una farmacia, sognava di aprire un’attività tutta sua: “Diventare un commerciante è sempre stato il mio sogno sin da giovane: mi avrebbe permesso di coronare i miei sogni; sia quello di essere indipendente, sia quello di dare lavoro”. il desiderio di Bentivoglio si avvera nel 1992, anno in cui amplia il suo piccolo negozio di articoli sanitari per l’infanzia.
I suoi sogni vanno però in frantumi a causa della realtà di quegli anni: “Era appena iniziato il ’90: nel 1991 terminò a Reggio la seconda guerra di ‘ndrangheta, che contò oltre mille morti e l’anno successivo, il 1992, si verificarono stragi di Via D’amelio e di Capaci”.
Così, a Reggio i mafiosi si dividono tra loro il territorio e le annesse attività economiche: “Loro stabilivano il pizzo al quale nessuno ha il diritto di ribellarsi, anzi il commerciante che spostava un locale doveva chiedere il permesso ai boss”.
Questa tela intrappola anche Bentivoglio: “Anche a me venne quindi chiesto il pizzo, anzi venni anche rimproverato per non aver chiesto il permesso di aprire un negozio così grande in una strada principale”.
Ma l’imprenditore è fortemente deciso a liberarsi dalla trappola: “Non è stato facile denunciare, soprattutto a quei tempi. Devo tanto a mia moglie, che mi disse: <il frutto dei nostri sacrifici deve rimanere a noi>”. Fu una scelta di vita dalla quale non si può tornare indietro. E le conseguenze non tardarono ad arrivare: “Venni punito per essermi ribellato, e queste punizioni erano un monito per gli altri commercianti, un invito a non seguire il mio esempio”.
Anche l’excursus legale è un percorso impervio, pieno di ostacoli: “Mi sono costituito parte civile. Ebbi innumerevoli difficoltà a trovare un avvocati: i mafiosi trovano facilmente i legali, ma è esattamente l’opposto per quelli nella mia situazione. Io ci ho messo più di otto mesi a trovare un avvocato, eppure Reggio Calabria è la 5° città italiana per numero di laureati in giurisprudenza. Alla fine ho trovato una donna, una mamma davvero coraggiosa, che in famiglia aveva vissuto la mia situazione: <ho visto papà piangere tante volte per le intimidazioni mafiose alla sua attività commerciale: è per questo che voglio aiutarvi>.
Dopo un processo che nel 2010 si conclude con condanne in cassazione per 416 bis- il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso- iniziano gli attentati contro l’imprenditore. Se prima la mafia si scagliava contro i beni, le merci, le strutture dell’imprenditore, adesso non esita ad attentare alla sua stessa vita: nel 2011 contro Bentivoglio, di spalle, vengono esplosi sei proiettili. Di questi, uno finisce nel suo polpaccio, uno rimane miracolosamente bloccato dal marsupio che portava sulle spalle e quattro si incastrano nello sportello scorrevole del suo furgone, che diventa così un salvifico scudo.
“I mafiosi attaccano alle spalle. Ecco perché non è vero che sono uomini d’onore: sanno accendere un fiammifero al buio, sanno far esplodere una bomba di soppiatto, insomma sempre di nascosto.  Non è stato facile vivere con la scorta. Ma solo denunciando si può vivere a testa alta e mantenere la dignità. E invece, molti commercianti pagano per non avere problemi, arrivano anche a invitare il capobastone all’inaugurazione del negozio”.
Tiberio è molto lucido riguardo i suoi stati d’animo: “Provo sia rabbia che speranza. Provo rabbia non verso i malavitosi, ma verso il sistema, verso quel pezzo di stato che avrebbe dovuto starmi vicino e invece è arrivato troppo tardi. Verso i mafiosi provo solo nausea. Vi auguro di sentirla la puzza della mafia, quella puzza di marcio, di cancerogeno verso il presente, il futuro e verso l’economia”.
La domanda sorge spontanea, tanto che Tiberio risponde prima ancora che venga fatta: “Tornassi indietro ripeterei tutto ciò che ho fatto, con più determinazione. Sta per iniziare il quarto processo e io sarò lì, ad indicare le persone, a dire i loro nomi: bisogna fare così, bisogna pretendere che se ne vadano loro, che vengano puniti, che le istituzioni compiano il loro dovere”.
I momenti più difficili sono stati quelli dell’abbandono e della solitudine.
“All’inizio è stata dura: da dentro la gabbia del tribunale, i mafiosi ridevano di noi. Loro fuori avevano gli scagnozzi, mentre noi eravamo soli. Io continuo a vedere tutti i giorni chi mi ha chiesto il pizzo. Nel 2005 ho chiesto l’aiuto di tutti: del presidente della Repubblica, dei ministri, della associazioni di categoria, dell’amministrazione locale, ma nessuno ha mai risposto. L’unica eccezione sono stati Don Luigi Ciotti e Libera. Hanno rappresentato una famiglia, sono sempre stati al mio fianco. Adesso invece è il mafioso che abbassa la testa quando mi vede per strada”.

Nel tracciare un bilancio di quest’esperienza, Bentivoglio si rivolge ai ragazzi, esortandoli a credere sempre nella legalità e nella difesa della propria libertà: “Auguro a tutti voi ragazzi di crescere nel rispetto delle leggi. Solo adempiendo a questo dovere potrete chiedere i vostri diritti: la loro arma più forte è il nostro silenzio. In un’intercettazione, un mafioso commentava così una partecipata manifestazione popolare contro la mafia: <cumpari, su popolo si ribella pi nui è finita (compare, se il popolo si ribella per noi è finita, n.d.r)>. Loro non temono il carcere o la giustizia: hanno paura se ci ribelliamo e se lo facciamo tutti assieme. Soprattutto voi giovani dovete incazzarvi”. Bentivoglio ammette che i giovani si ritrovano il mondo che è stato loro lasciato dai padri: “Noi adulti vi dobbiamo delle scuse: è colpa nostra, della nostra indifferenza se esiste la ‘ndrangheta, se i mafiosi vivono accanto a voi”.

Al termine dell’intervento di Bentivoglio, la giovane platea non ha esitato a intervenire e a interagire con l’ospite, dimostrando vivo interesse.

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