“Giovani calabresi: speranze e delusioni”: Pat Porpiglia illustra la sua ultima fatica letteraria

20 Giugno 2016
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di PAT PORPIGLIA

Pat Porpiglia

“Giovani calabresi: speranze e delusioni” è il mio ultimo in ordine di tempo impegno letterario. Esso è composto di una serie di racconti: cinque per l’esattezza. Ciascun testo, per quanto in sé concluso, va visto in collegamento unitario con gli altri appartenenti alla stessa raccolta. Il filo conduttore che lega i cinque racconti è la crisi economica che è partita da lontano, negli Stati Uniti nel 2008.

Le storie, nel loro insieme, almeno nelle mie intenzioni, vogliono evidenziare i molteplici problemi, disagi, sofferenze che sono stati causati dalla grave crisi economica d’inizio XXI secolo che si è abbattuta sull’Italia e, in particolare, sulla gente calabrese. Le storie vogliono essere, anche, un grido di protesta che si leva forte e chiaro dalla voce dei cittadini calabresi, ma, soprattutto, un grido di dolore proveniente dal cuore sanguinante dei giovani calabresi a cui è stato rubato il futuro, contro le classi dirigenti e politiche della nostra regione. Nonostante in tutte le storie vengano descritti episodi di inefficienza, di corruzione e ingiustizie di vario genere, non viene mai negata la speranza che una società migliore possa essere creata.

Una considerazione separata merita il brano “Cristo non si è fermato a Eboli” che più che un racconto è una specie di introduzione alla raccolta. Gesù Cristo, attratto dalle bellezze paesaggistiche, architettoniche, archeologiche e culturali della Calabria decide di visitarla al fine di comprendere perché i filosofi e letterati greci e latini l’avevano scelto come loro dimora, ma dopo un breve soggiorno nauseato e disgustato dal comportamento rassegnato e autocommiserante della maggior parte dei calabresi scompare di notte cancellando ogni traccia della sua venuta. Il racconto è imperniato sopra un dialogo tra un filosofo pazzo e un falso erudito al fine di accertare se Cristo abbia soggiornato oppure no in Calabria. La scelta del personaggio Natalino Stilo ‘il filosofo pazzo’ non è casuale ma ha un suo significato letterario. Infatti ad un pazzo viene consentito di dire la verità senza restrizioni e senza reticenze. Lo diceva il sindaco di San Camperto in Giovani calabresi: speranze e delusioni:

“Pensavo ad alta voce che soltanto ai folli in questo territorio, è consentito dire la verità impunemente.”

 Natalino, grazie alla sua riconosciuta pazzia, si sente libero di denunciare senza incorrere in alcuna ritorsione le povere condizioni sociali, politiche ed economiche in cui versano i cittadini calabresi. Senza mezze parole egli accusa apertamente la classe politica e dirigenziale calabrese delle inefficienze, della disoccupazione giovanile, della mancanza di sviluppo economico della Calabria.

Il racconto “Virginia, la notaia e Dora, la disoccupata”, vuole fare incontrare per metterli a confronto due mondi, quello dei ricchi e quello dei poveri. La crisi economica esplosa nel primo decennio del XXI secolo, ha allargato ulteriormente la forbice tra le fasce più ricche e quelle più povere in Italia e in Calabria. Basta sfogliare un giornale locale o a tiratura nazionale oppure guardare un telegiornale per essere assaliti dalla depressione. Abbiamo paura di quello che il futuro può riservare a noi e soprattutto ai nostri figli. Stiamo ritornando indietro di 65 anni, agli anni a ridosso della II Guerra Mondiale quando i nostri nonni, per mancanza di lavoro e di opportunità erano stati costretti a fare le valigie per cercare fortuna in paesi economicamente più evoluti. Siamo ritornati ai tempi contraddistinti dai bisogni e dalle paure.

Poiché nella vita tutto è relativo e la povertà non si sottrae a questa cosmica verità, bisogna evidenziare che essere poveri in Italia potrebbe corrispondere ad essere cittadini benestanti negli slum dei paesi più poveri del mondo.

Bisogni e sogni, comunque, in qualunque luogo del globo terrestre, pur non essendo fatti della stessa materia, appartengono ad ogni essere umano indipendentemente dalle singole condizioni sociali. L’eventuale eliminazione dei bisogni e la realizzazione dei sogni consentirebbe a Dora, la disoccupata, di raggiungere la felicità mentre non regala la stessa gioia a Virginia, la notaia, e ricca ereditiera, “cresciuta tra gli agi e i lussi… il cui guardaroba scoppiava di abiti disegnati, firmati e confezionati nelle più famose e prestigiose case di moda”.

“Mi sento inappagata – cara Dora – perché sono costretta a vivere in una specie di prigione dorata dove la creatività, la fantasia e l’immaginazione non sono presenti in quanto non sono beni necessari. Ho tutto quello che il mio essere desidera tuttavia sento dentro una latente insoddisfazione che, in alcuni momenti, mi rende la vita difficile. Non mi sento libera. Sento che la mia vita è stata incollata ad un posto fisso, ricevuto in eredità dalla mia famiglia, nella mia classe sociale di appartenenza.”, dice Virginia suscitando la rabbia della giovane disoccupata la quale le ricorda l’inopportunità di parlare di corda nella casa di un condannato all’impiccagione.

“Angela, prostituta per necessità”, è un’incompiuta perché Angela, la protagonista, alla fine del racconto non riesce ad accettare quello che ha fatto, cioè essersi prostituita, per potere coronare il nobile sogno di diventare dottoressa di “Medici senza frontiere.”  Il fine non poteva giustificare i mezzi nel suo caso specifico perché era stata cresciuta in una tipica famiglia della provincia calabrese dove la dignità, l’onorabilità e il rispetto erano e sono tuttora considerati connotati importanti di una persona. I traumi a cui ella ha assistito o che ha sperimentato sulla propria pelle continuano a vivere nei suoi ricordi e persino a distanza di anni le causano nuovi dolori e sofferenze ogni volta che affiorano nella memoria.

Nel racconto “La piantagione di marijuana”, ovviamente una provocazione, si vuole mettere in rilievo come la mancanza di uno sbocco occupazionale, dopo i tanti sacrifici economici fatti dai genitori e i migliori anni trascorsi sopra i libri dai giovani laureati calabresi, possa spingere questi ultimi a prendere delle decisioni sbagliate, come appunto cedere alla tentazione di iniziare un’attività ‘imprenditoriale’ illegale. Così diceva, Don Alessio, il parroco di San Camperto, il paesino calabrese dove interagiscono i personaggi dei racconti:

“Quando esiste un disagio sociale forte, per ragazzi scombussolati, avviliti, è più facile sentire le voci melodiose della ‘ndrangheta che non il suono delle campane della chiesa.”

Nel racconto “Giorgio: l’emigrato di ritorno”, viene affrontato il tema della fuga dei cervelli. Oggi uscire dai confini della nazione non significa abbandonare tutto, ma fare esperienza, essere pienamente cittadini del mondo, cosmopoliti. La retorica negativa della fuga dei cervelli dimentica sempre questo aspetto. Studiare e lavorare all’estero è un’esperienza formativa e umana eccezionale e preziosa: un tesoro per qualsiasi generazione. Il nostro problema, specie nell’Italia del sud, non è che i giovani più brillanti vadano via in cerca di nuove opportunità, ma che qui non arrivino giovani brillanti da altre parti del mondo. Insomma, un paese che non è attrattivo, ed è incapace di valorizzare le intelligenze, siano o no indigene, in un mondo che sarà sempre più caratterizzato dalle migrazioni, rischia di giocarsi il futuro.

In conclusione, io confesso che desideravo fortemente scrivere questo libro. È come se io avessi voluto farlo per scrollarmi di dosso un pesante fardello che mi impediva di sentirmi libero. Sentivo di dover dare voce a vicende di cui si parla poco e per niente perché è subentrata in molti di noi una complice rassegnazione. Arrendersi vuol dire soccombere che corrisponde a morire dentro. Ho ritenuto fosse un mio dovere parlare della crisi economica d’inizio secolo che tanti danni sociali, economici e psicologici ha causato alla onesta e dignitosa gente calabrese e soprattutto ai giovani calabresi.

 

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